POLITICHE CONTRO LA DISPARITÀ DI GENERE

In Italia, le disparità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro sono diminuite drasticamente negli ultimi 40 anni ma rimangono più marcate che in altri paesi europei e forti disparità territoriali permangono all’interno…

In Italia, le disparità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro sono diminuite drasticamente negli ultimi 40 anni ma rimangono più marcate che in altri paesi europei e forti disparità territoriali permangono all’interno del territorio italiano. In questo articolo discutiamo il sistema attuale degli asili nido, che riteniamo essere uno dei maggiori fattori responsabili della ridotta partecipazione femminile nel mercato del lavoro italiano.

Il divario tra il tasso di inattività (non-partecipazione nel mercato del lavoro) delle donne rispetto a quello degli uomini è diminuito in maniera pressoché omogenea nelle regioni italiane ma le disparità tra Nord e Sud Italia permangono. Il divario di partecipazione tra donne e uomini al Sud e’ di 12 punti percentuali superiore a quello osservabile al Nord: in Italia meridionale il tasso di inattività femminile e’ del 58%, da confrontarsi a quello maschile del 32%, mentre in Italia settentrionale sono rispettivamente del 35% e 21% (dati aggiornati al 2019). È preoccupante inoltre il fatto che questa disparità territoriale sia rimasta invariata nel corso degli ultimi 50 anni.

Le disparità di genere non si riscontrano solo nel tasso di inattività ma anche nel tasso di disoccupazione, nonostante il divario in quest ultimo sia di gran lunga inferiore rispetto a quanto discusso per l’inattività. Nel corso degli ultimi 20 anni questo fenomeno è diminuito drasticamente, ma il tasso di disoccupazione femminile in Italia rimane di 2 punti percentuali più elevato di quello maschile.

Secondo un’indagine dell’Isfol[1] (Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori) condotta nel 2010 oltre la metà delle donne inattive a causa della cura dei figli (stimate al 46%) sarebbe disponibile a lavorare fino a 25 ore settimanali. Ma la scarsità di posizioni lavorative con orario ridotto o flessibile aggrava la situazione. Nel 2019 25.000 genitori (per la maggior parte madri) con figli minori di 3 anni, si sono licenziati per l’impossibilità di conciliare vita familiare e lavorativa[2]. Occorre dunque sottolineare come i maggiori tassi di inattività e disoccupazione per le donne italiane siano in qualche modo collegati, con l’inattività spesso e volentieri una condizione figlia di una prolungata disoccupazione e scoraggiamento nella ricerca di una posizione lavorativa adeguata alle esigenze di un lavoratore-genitore su cui si riversa quasi esclusivamente la cura di figli e parenti stretti.

In Italia ancora oggi la maggior parte delle famiglie adotta quello che viene chiamato “il modello di welfare mediterraneo”, sistema di organizzazione familiare che presuppone sia la donna a doversi occupare della prole e della gestione degli affari domestici, mentre l’uomo sia più adatto al lavoro fuori dalle mura domestiche. I numeri di un report dell’ Eurostat[3] confermano come la cura della popolazione più vulnerabile, e soprattutto dell’infanzia, sia infatti il motivo principale del divario di genere nell’ inattività in Italia. Il 39% delle donne inattive nel mercato del lavoro attribuisce la mancata partecipazione al lavoro di cura, mentre tale motivazione è addotta solo dal 4% degli uomini inattivi. Secondo numerose altre fonti[4] emerge che l’abbandono del lavoro a causa della maternità giochi un ruolo centrale nell’alimentare il gap di genere e i problemi economici ad esso collegati in Italia. Mentre gli abbandoni da parte delle donne per altri motivi sono in calo, quello per maternità si mantiene costante. In particolare, l’abbandono del lavoro a causa del matrimonio si è ridotto significativamente passando dal 15,2% delle nate tra il 1944 e il 1953 al 7,1% di quelle nate dopo il 1973. Contemporaneamente, gli abbandoni per maternità si mantengono a livelli vicini al 15%.

La principale ragione dell’adozione di tale modello di welfare non è meramente culturale, come spesso osservatori esterni tendono a fraintendere, ma è la mancanza di sufficienti strutture sociali per la cura, soprattutto dei bambini come gli asili nido. Infatti, se la risoluzione dell’Unione Europea adottata ormai nel 2002 a Barcellona prefissava di raggiungere una copertura minima di asili nido del 33% entro il 2010, nel 2018 la nostra si trovava ancora al 25,5%.

In totale, nell’anno educativo 2018/2019 erano attivi sul territorio nazionale 13.335 servizi per la prima infanzia, per un totale di 355.829 posti autorizzati al funzionamento.

Se si desidera approfondire per regioni, inoltre, si può notare come l’offerta di asili nido al Sud sia quasi inesistente. Se nelle regioni del Nord e del Centro i tassi di copertura si aggirano intorno al 32,5%, al Sud si scende al 12,3%, arrivando a 10 posti ogni 100 bambini per le Isole.

Una dotazione decisamente insufficiente, che non permette quindi a molte donne di contare sull’asilo nido come aiuto per rientrare nel mondo del lavoro, infatti si stima che circa il 16% delle famiglie non iscriva i propri figli all’asilo nido per ragioni indipendenti dalla loro volontà.[5]

Un’offerta adeguata di asili nido che raggiunga la copertura minima raccomandata dall’Unione Europea in tempi brevi e’ il primo passo fondamentale per una parita’ di opportunita’ di genere sostanziale nel mercato del lavoro e per cui Scossa Liberale intende battersi.

Ma le difficoltà nell’utilizzo dei servizi di cura per la prima infanzia in Italia non si riscontra solo nella mancanza di offerta.

Infatti, nonostante il costo degli asili pubblici si basi sul reddito familiare, il reddito netto delle famiglie che usufruiscono del nido risulta mediamente più alto di quello delle famiglie con figli di età compresa tra 0 e 2 anni che non frequentano il nido: 40.092 euro annui contro 34.572.

Le cifre fornite dall’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva, stimano una spesa media di circa 300 euro mensili per una famiglia con un figlio al nido nell’anno scolastico 2019/2020, circa il 10% del reddito medio familiare mensile e il 14% del reddito medio femminile[6].

Secondo un recente rapporto realizzato dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia, dall’Istat e dall’Università Ca’ Foscari, infatti, l’11% delle famiglie che non hanno iscritto il proprio figlio al nido dichiara di averlo fatto per un problema di costi.[7]

Da questi dati si evince quindi che il costo degli asili nido rimane troppo alto per famiglie a medio/basso reddito che decidono di sacrificare il lavoro della madre piuttosto che sostenere le spese del servizio di asilo nido.

Gli effetti dell’inattività femminile implicitamente  si tramutano in un costo a carico dello Stato, nel caso in cui tali famiglie beneficino di stipendi di cittadinanza/sussidi anti-povertà.

Si crea per cui un circolo vizioso in cui il costo di mantenimento da parte dello Stato di tali famiglie puo’ essere superiore al costo di un contributo/agevolazione per la retta dell’asilo nido che permetterebbe alla donna di lavorare donandole in aggiunta indipendenza, maggiore uguaglianza e voce in contesto familiare, e la possibilità di mantenere le sue competenze professionali attive e di contribuire in maniera produttiva all’attività economica del paese.

Per questo motivo intendiamo proporre una maggiore agevolazione per la retta dell’asilo nido atta a dare a tutte donne la possibilità effettiva di scegliere se usufruire dei servizi di asilo nido o meno.

La disuguaglianza di genere in Italia è un problema sociale aggravato dal carico di cura che ricade sulle donne in assenza di strutture sociali come gli asili nido.

Riteniamo che sia compito dello Stato promuovere la parità di genere, necessaria ad ogni livello sociale, compreso il nucleo familiare, dove pari opportunità lavorative dovrebbero quindi essere garantite per entrambi i genitori.

Tuttavia l’elevato tasso di inattività femminile in Italia non è solo un ostacolo all’uguaglianza femminile all’interno del contesto sociale e familiare, ma ha anche un impatto sostanziale sul potenziale economico del nostro Paese.

Se si vuole stimare il “potenziale economico mancato” dall’inattività femminile (non per scelta) bisogna considerare due aspetti della questione: il primo è il mancato contributo lavorativo negli anni destinati alla cura dei bambini, il quale sarebbe potuto avvenire sotto forma di orario flessibile o ridotto, se non a tempo pieno in presenza di strutture per l’infanzia.

Il secondo è l’effetto di “scarring” (o effetto “cicatrice”) dovuto alla prolungata assenza dalla partecipazione attiva lavorativa che ha un impatto su un successivo reintegro professionale . Questo effetto è tanto più rilevante quanto più la donna era dotata inizialmente di competenze tecniche; ciò è per lo più dovuto alla necessità di mantenere tali competenze costantemente aggiornate in un mercato del lavoro sempre più competitivo e un’obsolescenza delle competenze sempre più veloce a causa del rapido avanzamento tecnologico globale.

Dunque una riduzione dell’inattività femminile porterebbe ad un aumento del PIL? Generalmente si’.

Al lavoro di donne oggi inattive sarebbe associato a) un contributo produttivo diretto all’interno di aziende nel nostro paese, b) un aumento della richiesta di servizi di cura e servizi domestici, settori in cui si creerebbero quindi nuovi posti di lavoro, con conseguente riduzione della disoccupazione. Tra l’altro, visto il maggior impiego femminile in questi settori, questo creerebbe un circolo virtuoso che rinforza la riduzione della disoccupazione e dell’inattività femminile. Infine, c) l’impiego di donne oggi inattive contribuirebbe positivamente ai consumi, soprattutto vista la maggiore incidenza dell’inattività  tra le donne parte di famiglie con reddito medio-basso.

Uno studio dell’OCSE del 2012 stimo’ che se la partecipazione femminile avesse raggiunto i livelli maschili entro il 2030, la forza lavoro italiana sarebbe aumentata del 7 percento  e a ciò sarebbe corrisposto un aumento del PIL dell’1 percento annuo. Un rapporto della Commissione Europea del 2010 stima infatti che la chiusura del gap partecipativo di genere comporterebbe un aumento del pil del 32%.

La questione e’ dunque urgente ed economicamente rilevante e il Recovery Fund rappresenta un’occasione irripetibile di fondi pronti da destinarvisi.

Come Scossa Liberale intendiamo portare avanti le seguenti misure concrete per promuovere il reinserimento della popolazione femminile nel mercato del lavoro:

1) La rimozione dell’obbligatorietà da parte della madre ad un congedo maternità di 5 mesi

Questo potrebbe permettere alle madri che lo desiderano, di non abbandonare completamente il proprio lavoro, magari con la possibilità di ridurne l’orario temporaneamente.

2) L’inserimento di un congedo parentale unico per i due genitori, rispetto a quello attuale diviso tra madre e padre

Questo consentirebbe non solo a ridurre la disuguaglianza di genere garantendo pari opportunità di carriera, ma anche a ridurre la discriminazione di genere al momento delle assunzioni nei luoghi di lavoro (non ci sarebbe più il problema dell’assenza da lavoro delle donne, poiché gli uomini si potrebbero assentare con la stessa probabilità). Ciò’ inoltre  aumenterebbe l’indipendenza economica femminile e garantirebbe una più equa divisione del carico familiare tra i genitori, contribuendo anche ad aumentare il tasso di natalità che è tra i più bassi nell’Unione Europea.

3) Un aumento delle infrastrutture sociali per la cura, a partire dagli asili nido. Il raggiungimento di una copertura in linea con altri paesi europei a livello regionale non deve tuttavia necessariamente avvenire tramite infrastrutture pubbliche ma anche tramite il coinvolgimenti di attori privati nel settore, ad esempio favorendo l’offerta di asili aziendali all’interno delle grandi imprese.

4) Un ripensamento del sistema di leve fiscali per il nucleo familiare che vada a sostituire la leva fiscale per il coniuge  non lavoratore a carico, la quale scoraggia il ritorno a lavoro della madre, con una leva fiscale per il costo dell’asilo nido o un contributo per la ripresa dell’attività lavorativa in seguito alla maternità’.

5) Incentivi per la formazione e l’assunzione della popolazione femminile del mondo del lavoro

Rientrano tra questi ad esempio misure che favoriscano l’assunzione o l’impiego part-time di donne con figli in eta’ pre-scolare e agevolazioni per le studentesse universitarie madri.  Ad oggi lo Stato Italiano non prevede alcun tipo di incentivo o contributo per le studentesse universitarie che diventano madri durante il loro corso di studi eccetto per il blocco delle tasse universitarie per un anno.

Infine, è necessario combattere in prima linea i presupposti culturali che vedono ancora la figura femminile come predisposta per la cura della famiglia e domestica.
La madre che decide infatti di continuare la propria vita professionale dopo la nascita dei figli deve essere supportata sia nella sfera familiare sia in quella pubblica, con un impegno civico nel combattere i pregiudizi che sottintendono la madre lavoratrice o studente come una madre peggiore rispetto a quella che dedica interamente il suo tempo alla cura della prole.

È evidente che il problema della disoccupazione femminile non è fondato solo su cause di praticità nelle dinamiche familiari, ma è anche il frutto di una cultura patriarcale radicata nella nostra società che richiede un intervento a lungo termine.
Riteniamo fondamentali in tal senso programmi di educazione civica della popolazione fin dalla tenera età, tramite i quali i bambini e i ragazzi possano essere accompagnati verso una visione del mondo del lavoro che vede presente allo stesso modo sia la popolazione maschile che quella femminile.

Ad oggi i protagonisti nei libri di testo utilizzati nelle scuole elementari sono per il 37% figure femminili, prevalentemente nelle mansioni di streghe, maestre e maghe, mentre per il 63% figure maschili, perlopiù scienziati, medici, studiosi e supereroi[8].

La strada da fare e’ dunque in salita e proprio per questo l’uguaglianza di genere rientra nei punti fondamentali del nostro programma.


[1] Isfol_FSE145.pdf

[2]https://​www​.ispettorato​.gov​.it/​i​t​-​i​t​/​s​t​u​d​i​e​s​t​a​t​i​s​t​i​c​h​e​/​D​o​c​u​m​e​n​t​s​/​R​e​l​a​z​i​o​n​e​-​C​o​n​v​a​l​i​d​a​-​D​i​m​i​s​s​i​o​n​i​-​a​n​n​o​-​2​0​1​9​.​pdf

[3] Sustainable development in the European Union — Monitoring report on progress towards the SDGs in an EU context (2020 edition) (europa​.eu)

[4]  Anna Spada e Claudia Sunna “Genere, maternità e lavoro in Italia: problemi e potenzialità economica” (pp. 1–37) in Valutazione delle dimissioni delle lavoratrici madri, I Quaderni Regionali di Parità, Vol. VII a cura di E. Ciavolino (2013)

[5] https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Asili%20nido%20OCPI.pdf

[6] Nel 2017, il reddito medio mensile di una famiglia con un figlio minore maschile e’ stato di 2933,5 euro, il reddito medio annuale per la popolazione femminile in italia di 26.324 euro — Dati Istat 2017

[7]http://​famiglia​.governo​.it/​m​e​d​i​a​/​1​9​6​1​/​r​a​p​p​o​r​t​o​-​i​n​f​a​n​z​i​a​-​i​s​t​a​t​-​c​a​-​f​o​s​c​a​r​i​.​pdf

[8] Fonte: Save The Children, annuario 2020.

POLITICHE CONTRO LA DISPARITÀ DI GENERE

In Italia, le disparità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro sono diminuite drasticamente negli ultimi 40 anni ma rimangono più marcate che in altri paesi europei e forti disparità territoriali permangono all’interno del territorio italiano. In questo articolo discutiamo il sistema attuale degli asili nido, che riteniamo essere uno dei maggiori fattori responsabili della…