I paradisi fiscali nell’UE

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Vari Paesi dell’Unione Europea possono essere considerati dei paradisi fiscali. In accordo paper di European House Ambrosetti di novembre 2020, questi sono, principalmente: Paesi Bassi, Lussemburgo, Irlanda. In misura minore, anche Malta, Cipro e Ungheria adottano politiche fiscali aggressive per attirare società da altri Paesi.

Il paper di European House Ambrosetti riporta che nove paradisi fiscali attraggono ogni anno il 42% degli investimenti diretti esteri globali (Ide) e oltre il 40% dei profitti realizzati dalle multinazionali, con un profit shifting di circa 741 miliardi di dollari nel 2017 sottratti alle altre economie. Ossia le società, principalmente multinazionali, pagano imposte dove la tassazione è minore invece che nei paesi in cui è effettivamente prodotto  il reddito da tassare. Per citare altri numeri: la Germania perde il 26% del gettito della tassazione sugli utili d’impresa, la Francia il 22%, l’Italia il 15%. Per l’Italia in particolare, questo dumping fiscale si traduce in una perdita di gettito attorno ai 6,4 miliardi di dollari annui. Le leggi di bilancio italiano degli ultimi anni hanno quindi previsto una manovra da 30 miliardi di euro a 37 miliardi, quindi con il mancato gettito si sarebbe riuscito a coprire circa il 17% dell’intera manovra annua.

Il rapporto di Tax Justice Network pubblicato ad aprile 2020: “The axis of tax avoidance. Time for the EU to close Europe’s tax havens”, curato da Alex Cobham, Javier Garcia-Bernardo e Mark Bou Mansour, definisce il Lussemburgo, la Svizzera, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna l’Asse dell’elusione fiscale. Il Tax Justice Network è una rete internazionale indipendente, lanciata nel 2003, incentrata sulla ricerca, analisi e sostegno della regolamentazione fiscale e finanziaria internazionale, analizzando anche il ruolo dei paradisi fiscali.

Nel rapporto sopra citato si dà evidenza dell’analisi dei bilanci delle società americane presenti nei quattro Paesi e nel resto dell’Unione Europea.

Secondo il rapporto, gli Stati membri dell’UE stanno perdendo oltre 27 miliardi di dollari all’anno di imposte sulle società, le quali avrebbero dovuto essere versate da multinazionali americane che abusano della legge per spostare i loro profitti in Lussemburgo, Svizzera, Olanda e Regno Unito, dove le aliquote dell’imposta sulle società variano dallo 0,8% al 10%.

Oltre ai 10 miliardi persi a causa dei Paesi Bassi, ci sono altri 17 miliardi dovuti allo spostamento degli utili in Lussemburgo, Svizzera e Regno Unito. Questi quattro Paesi assieme, sempre in base al rapporto, costano alla Unione Europea 12 volte il bilancio del Consiglio Europeo della Ricerca, un organismo paneuropeo di finanziamento della ricerca scientifica e della tecnologia che attualmente finanzia oltre 70.000 ricercatori e che ha dato risorse a sette progetti vincitori del Premio Nobel.

I benefici fiscali a favore delle società che hanno la sede nei paradisi fiscali sono principalmente ottenuti nei seguenti modi:

  1.  Aliquota nominale di tassazione societaria bassa: Cipro e Irlanda hanno un’aliquota del 13% e l’Ungheria del 9%. Mentre le aliquote in Italia, Francia e Germania sono ampiamente superiori al 20%.
  2. Accordi specifici fra multinazionali e paese ospitante (c.d. Tax Ruling). Con tali accordi, la multinazionale concorda con un paese il trattamento fiscale, molto vantaggioso, da ricevere per un certo periodo. Negli ultimi anni, molti tax ruling sono finiti sotto indagine da parte della Commissione Europea per concorrenza sleale e aiuti di stato. Famosi i casi di Starbucks per l’Olanda e il caso Apple per l’Irlanda, dove quest’ultima faceva pagare all’azienda di Cupertino meno dell’1% sul profitto realizzato in Europa. Il Gruppo FCA ha accantonato 58,7 milioni di euro nel bilancio del 2019 perché ritiene probabile che perda la controversia giudiziaria in corso con la Commissione Europea sui presunti aiuti di stato ricevuti dal Lussemburgo a partire dal 2012. L’inchiesta giornalistica “LuxLeaks” ha portato alla pubblicazione nel novembre 2014 di 548 documenti su accordi segreti in materia di imposizione fiscale intercorsi tra le autorità del Lussemburgo e 343 aziende. Accordi che hanno favorito schemi di pianificazione fiscale aggressiva, incentivando un trasferimento verso il Lussemburgo di profitti realizzati in giurisdizioni a più alta fiscalità in cambio del pagamento di un’aliquota effettiva irrisoria, spesso inferiore all’1% sugli utili dichiarati.
  3. Deduzioni che riducono la base imponibile e detrazioni che diminuiscono le tasse effettivamente dovute. Secondo lo studio “Corporate Tax Haven Index 2019” del Tax Justice Network, le aliquote nominali che ogni paese dichiara in alcuni casi differiscono fortemente dall’aliquota realmente applicata per effetti di deduzioni, detrazioni, e applicazione dei tax ruling. I paesi piccoli sono quelli che riducono maggiormente le aliquote, a volte addirittura azzerandole.
  4. Politiche di transfer pricing aggressive: i gruppi multinazionali attuano politiche di “pricing” fra le società del proprio gruppo per portare gli utili in un paese a tassazione ridotta e conseguenti maggiori perdite in paesi ad alta tassazione.

Un’inchiesta per il Sole24Ore dei giornalisti Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi della primavera 2020 riporta la presenza nei Paesi Bassi di 15mila “scatole vuote” e quasi 25mila multinazionali presenti che generano un business miliardario. Migliaia di studi legali con 17.500 avvocati e 2.800 praticanti, 170 società fiduciarie, 786 banche, 1.238 società assicurative e 92 di riassicurazioni: nel solo 2019 sono avvenute 850 fusioni e acquisizioni per un valore di 80 miliardi di euro. Questo oltre a società di consulenza e di gestione, università, cultura e viaggi. Le multinazionali generano il 40% dell’occupazione in Olanda, l’80% del commercio verso l’estero, due terzi del fatturato privato e il 40% della produzione economica totale.

Sempre l’inchiesta di Galullo e Mincuzzi sottolinea il legame fra i Paesi Bassi e le Bermuda, paradiso fiscale off-shore: uno studio realizzato dal Cpb, l’Ufficio per le analisi di politica economica del Ministero degli Affari Economici dei Paesi Bassi, rivela il ruolo dell’Olanda come paese di transito da e verso i paradisi fiscali, grazie alla grande quantità di accordi firmati contro la doppia imposizione fiscale. «I Paesi Bassi – scrivono gli autori del report, Arjan Lejour, Jan Mohlmann e Maarten van ‘t Riet – non hanno imposto finora una ritenuta d’acconto sulle royalties e questo ha fatto di loro un paese di transito molto attrattivo. Il 60% delle royalties che passa attraverso i Paesi Bassi va direttamente nel paradiso fiscale delle Bermuda». In sostanza, attratti dalla sicurezza di non pagare tasse, i capitali provenienti dai paradisi fiscali allungano il loro tragitto e vengono deviati in Olanda prima di approdare nuovamente  in altri paradisi fiscali. Lo studio ne cita alcuni, oltre alle Bermuda — Cayman, Singapore, Emirati Arabi, Porto Rico — ma i beneficiari effettivi di questi capitali sono quasi sempre società statunitensi o del Regno Unito. Per attenuare questo fenomeno, dal 2021 nei Paesi Bassi entrerà in vigore la norma della ritenuta alla fonte condizionale su interessi e royalties.

Un indicatore che può essere utilizzato per evidenziare la presenza di pianificazioni fiscali aggressive in un paese è il livello degli investimenti diretti esteri (IDE) che riceve, nel caso questi siano particolarmente anomali e non spiegabili. Ad esempio, il Lussemburgo ha uno spropositato afflusso di investimenti esteri. Anche gli altri Paesi dell’Unione Europea considerati come praticanti politiche fiscali aggressive hanno livelli particolarmente elevati. Un altro indicatore è il gettito dell’imposta sulle società in percentuale del PIL. Anche in questo caso, ai primi posti troviamo paesi con politiche di tassazione aggressiva. Ultimo indicatore è l’utile per dipendente, che vede il Lussemburgo con numeri ineguagliabili: 8.832.000 USD per dipendente di multinazionale americana — mentre in Italia ogni dipendente di una multinazionale americana genera 45.000 USD di utile, in Germania 46.000 USD, in Francia 36.000 USD e in Spagna 34.000 USD.

Secondo Alex Cobham, Amministratore Delegato di Tax Justice Network: “La pandemia del coronavirus ha messo in luce i gravi costi di un sistema fiscale internazionale programmato per dare priorità all’interesse dei giganti corporativi rispetto ai bisogni delle persone. Per anni, il Regno Unito, la Svizzera, i Paesi Bassi e il Lussemburgo – l’asse dell’elusione – hanno alimentato una corsa verso il basso, consegnando ricchezza e potere nell’UE  alle più grandi multinazionali e portandoli via dagli infermieri e dai lavoratori del servizio pubblico che rischiano le loro vite oggi per proteggere le nostre”.

Di contro, qualcuno obietta che Paesi come il Lussemburgo ed i Paesi Bassi sono esempi di sano ed efficiente controllo della spesa pubblica, e che per questo si possono permettere di far pagare imposte prossime allo zero alle multinazionali che accolgono nel loro territorio. In realtà, in presenza di forti diversità nella dimensione dei paesi all’interno di un mercato comune, non funziona propriamente così. Infatti, paesi piccoli hanno un vantaggio nell’abbassare la propria tassazione in quanto la piccola perdita di gettito sui profitti delle società già operanti nel paese dovuta al calo della tassazione è più che compensata dall’afflusso di investimenti dal resto del mercato comune (si veda, ad esempio, l’importante peso delle imposte in percentuale del PIL in tali paesi). Di conseguenza, paesi di piccole dimensioni non hanno neppure la necessità di avere una spesa efficiente per attirare investimenti. I paesi in questione fanno dumping fiscale falsando il mercato, stipulano accordi ad hoc con le multinazionali puntando oltre che all’investimento diretto a un minimo di gettito fiscale e incamerando diversi e notevoli benefici nel caso in cui le multinazionali impieghino personale nel paese ospitante: lavoro, imposte indirette, miglioramento del mercato immobiliare e di tutto l’indotto. 

Secondo Gabriel Zucman, economista e professore all’Università della California a Berkeley, il primo passo per eliminare i paradisi fiscali dovrebbe essere la creazione di un catasto mondiale dei patrimoni finanziari, in cui registrare i proprietari di ogni azione e obbligazione. Questo catasto fungerebbe da deposito titoli: sarebbe coordinato dagli Stati e dalle Organizzazioni Internazionali, e consentirebbe alle amministrazioni fiscali nazionali di lottare contro l’evasione e di riscuotere le imposte sui patrimoni e sui flussi di reddito da capitale. Questo catasto dei titoli finanziari sarebbe un discendente dei catasti terrieri e per gli immobili che ha permesso nei secoli passati agli stati di tassare i patrimoni in maniera utile e trasparente, cosa che oggi non si può fare con la stessa efficacia rispetto ai patrimoni, soprattutto quelli costituiti da beni finanziari.

Ad alcuni l’idea di un deposito centrale può sembrare utopistica, ma non lo è. In realtà, i depositi centrali titoli esistono già: il vero problema è che non sono globali ma nazionali, o talvolta regionali, e soprattutto privati invece di pubblici. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, i titoli sono stati gradualmente dematerializzati, fino alla totale scomparsa dei certificati cartacei. Sono nati allora i depositi centrali moderni, con lo scopo di garantire la sicurezza delle transazioni finanziarie e di registrare i proprietari delle azioni e obbligazioni in un database digitale, garantendo il diritto di proprietà degli stessi attivi. Molti istituti finanziari privati si sono specializzati in questo servizio. I depositi centrali più noti sono, negli Stati Uniti, la Depository Trust Company (Dtc) e, in Europa: Euroclear (sede in Belgio) e Clearstream (sede in Lussemburgo). Purtroppo, però, queste organizzazioni non trasmettono sistematicamente i loro dati agli stati e alle amministrazioni fiscali, ma tendono spesso a promuovere e beneficiare dell’evasione fiscale e dell’opacità finanziaria.

Altre proposte del professor Zucman sono: 

  • Prevedere sanzioni proporzionate al costo che i paradisi fiscali impongono agli altri paesi; 
  • Basare l’imposizione sulle società multinazionali sugli utili consolidati in tutto il mondo, e non sui profitti paese per paese.

Il think tank guidato da De Molli di The European House Ambrosetti propone di mobilitare una maggiore cooperazione internazionale da combinare con l’introduzione di un’aliquota reale minima sulla tassazione degli utili d’impresa comune a livello europeo.

Tax Justice Network propone tre interventi:

  1. L’introduzione della tassazione unitaria: la base imponibile consolidata comune per le società, nella sua forma più ambiziosa, che renderebbe obsoleta la pratica di spostare i profitti in paradisi fiscali delle società per ridurre gli obblighi fiscali altrove, poiché le società dovrebbero pagare le tasse in base al luogo in cui impiegano i lavoratori per generare il profitto anziché in base al luogo in cui il profitto viene dichiarato alla fine.
  2. Adozione di un’aliquota minima di imposta sulle società pari al 25% o superiore, che eliminerebbe la maggior parte degli incentivi al trasferimento degli utili; e una tassa sugli utili in eccesso del 50% o del 75% nel periodo della crisi, che garantirebbe che le società che traggono profitti dalla pandemia condividano pienamente i loro utili con gli stati da cui questi profitti derivano;
  3. L’introduzione della rendicontazione pubblica per paese, che garantirebbe la trasparenza sia per le multinazionali che per gli Stati Membri. Il country by country reporting, ovvero la rendicontazione per paese degli utili prodotti, esiste già, ma non è resa pubblica. Tutti gli stakeholders dovrebbero invece averne conoscenza.

Anche l’economista e premio Nobel Joseph Stiglizt, assieme al professore e criminologo svizzero Mark Pieth, indica misure per neutralizzare i paradisi fiscali. Alcune di queste misure sono mutuate o ispirate da strumenti già esistenti: l’istituzione di un registro pubblico contenente i dati relativi al beneficiario effettivo di un rapporto bancario o al titolare effettivo di una determinata struttura societaria o legale; il rafforzamento delle misure di protezione dei whistleblowers, dipendenti di strutture pubbliche o private che denunciano abusi nella struttura di appartenenza; lo scambio automatico di dati fiscali tra stati (inclusi quelli dei pubblici registri sui beneficiari effettivi) sulla base della convenzione multilaterale e sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale del 2010. Altre misure costituirebbero importanti novità in ambito internazionale: l’imposizione di un limite alle cariche direttive o fiduciarie in società private ricopribili dallo stesso soggetto (scoraggiando la pratica dei prestanome); la disclosure obbligatoria sulle operazioni in contanti su proprietà immobiliari; e la diffusione dei cosiddetti unexplained wealth order, ordinanze che consentono alle autorità giudiziarie del Regno Unito di richiedere al soggetto titolare di determinati beni di spiegarne l’acquisizione.

Una risposta alle politiche fiscali aggressive dei paesi è stata data anche dalla Commissione Europea, che nel 2011 ha proposto la Ccctb — Common Consolidated Corporate Tax Base, che si riferisce ad una proposta italiana di oltre 20 anni fa, ma non ancora attuata. La Ccctb costituisce un set di regole comuni per calcolare la base imponibile delle società che sono fiscalmente residenti nell’Unione Europea e delle loro filiali ubicate nell’UE. La base imponibile unitariamente determinata dovrebbe essere suddivisa tra i diversi stati membri dell’UE presso i quali opera il gruppo, sulla base di una formula che prenda in considerazione e ponderi i valori degli assets, il n° dipendenti, il costo del lavoro, e le vendite per paese delle società operanti in Unione Europea.

Irlanda e Gran Bretagna si sono opposte all’approvazione di questa direttiva, esercitando il diritto di veto di cui godono in quanto Stati Membri. Per superare tale ostacolo, la Commissione Europea dovrebbe applicare l’articolo 116 del TFUE-Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea in materia fiscale. Tale articolo prevede che il diritto di veto degli Stati Membri possa essere superato nel caso in cui la Commissione veda una disparità esistente delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati Membri che falsi le condizioni di concorrenza di mercato interno e provochi distorsioni che debbano essere eliminate.

La tassazione delle imprese è fortemente condizionata dalla concorrenza fiscale a livello internazionale, che ha fatto scendere le aliquote delle imposte sulle società in tutto il mondo. La questione va risolta a livello sovranazionale, tramite Ocse e Unione Europea, ma anche la mobilitazione dei cittadini deve combattere l’attuale “impotenza” degli stati, soprattutto se questi paradisi fiscali sono in Unione Europea. 

Le democrazie liberali moderne si reggono su un contratto sociale fondamentale: tutti devono pagare le tasse su una base equa e trasparente per finanziare l’accesso a un rilevante numero di beni e servizi pubblici. Se alcuni degli individui più ricchi e alcune delle più grandi società del pianeta si servono dei paradisi fiscali e dell’elusione fiscale per evitare di pagare la quasi totalità delle imposte dovute, questo contratto sociale fondamentale è in pericolo. Se i contribuenti delle classi medie sentono di pagare aliquote fiscali effettive più alte di chi è più ricco, e se le piccole e medie imprese considerano di pagare più delle grandi società, c’è il rischio che il concetto di consenso fiscale, su cui si basano le moderne democrazie, si annulli. Di conseguenza, molti cittadini potrebbero essere invogliati ad accettare soluzioni populiste e nazionaliste.

L’Europa è in crisi almeno dal 2008. Molti credono di vedervi il segno di un declino irreversibile, ma si sbagliano. Il continente europeo è la regione più ricca del mondo. I patrimoni privati sono superiori al suo debito pubblico. E, contrariamente a quanto di crede, i patrimoni possono essere equamente tassati. Gli utili e il denaro sono trasferiti e nascosti in paradisi fiscali in Europa e off-shore, anziché nell’economia reale e nelle aziende. L’Europa si sta derubando da sola.

Le crisi portano spesso con sé la necessità e l’effettivo superamento di paradigmi e benefici ingiusti.

Come abbiamo visto, ci sono i mezzi per combattere le distorsioni del mercato e i paradisi fiscali, ed è arrivato il momento di iniziare a farlo. Un buon punto di partenza potrà essere il lavoro del neo costituito Osservatorio sulle Imposte in Europa, EU Tax Observatory, guidato dal Professor Gabriel Zucman e promosso dal Parlamento Europeo. L’Osservatorio avrà diversi compiti: redazione di un registro pubblico contenente dati e analisi sull’elusione ed evasione fiscale. Sulla base della precedente ricerca esistente, l’Osservatorio elaborerà raccomandazioni su come prevenire il trasferimento di profitti e beni verso i paradisi fiscali e l’elusione fiscale aggressiva. Inoltre, verranno mantenuti i contatti con le Organizzazioni Internazionali e le amministrazioni nazionali rilevanti, per promuovere lo sviluppo di norme comuni dell’UE in materia fiscale e per portare avanti la lotta al riciclaggio di denaro.

Giulio del Balzo e Paolo Giacobbe

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