Futuro del lavoro e skill gap
«Il futuro è già arrivato. Solamente non è ancora stato uniformemente distribuito» ha scritto William Gibson, autore di Cyberpunk. Lo skill gap è la differenza di abilità e competenze tra la richiesta dal lato della domanda di…
«Il futuro è già arrivato. Solamente non è ancora stato uniformemente distribuito» ha scritto William Gibson, autore di Cyberpunk.
Lo skill gap è la differenza di abilità e competenze tra la richiesta dal lato della domanda di lavoro rispetto all’offerta: al giorno d’oggi, non solo mancano le competenze per alcuni lavori (specialmente di nascita recente), ma molte persone sono sempre più relegate ai margini del mondo lavorativo per mancanza di competenze necessarie. Con il passare degli anni, tale fenomeno risulta essere estremamente evidente.
La maggior parte delle analisi e opinioni di studiosi ed enti di ricerca mette in luce il fatto che la trasformazione del lavoro è sempre più veloce, con ricadute profonde sull’occupazione e sulla società a causa dell’aumento della automazione, dell’intelligenza artificiale e della potenza di calcolo dei computer.
Le disuguaglianze continuano ad aumentare, portando con sé possibili tensioni sociali — come già avvenuto ad esempio in Francia, con i gilet gialli, e nel resto del mondo con l’ascesa dei partiti populisti. L’ondata di automatizzazione tende a sostituire i posti di lavoro che richiedono alcune competenze (ad esempio attività amministrative) con lavori molto qualificati (e.g.: programmatori di software per le macchine) o poco qualificati (e.g.: dog sitter); in entrambi i casi, si tratta di lavori che sono molto più difficili da sostituire con delle macchine. Questa tendenza, iniziata negli anni ottanta del secolo scorso, si sta progressivamente accentuando: i lavoratori senza un titolo universitario si ritrovano estromessi sempre più spesso da lavori a media qualifica, come i ruoli impiegatizi e amministrativi, ed obbligati a mansioni a bassa qualifica e mal pagati, come le pulizie e la sicurezza.
A fine 2019, il mercato del lavoro italiano era in lenta ripresa dopo la crisi finanziaria di inizio decennio. Come in tutte le fasi di “salto” tecnologico, le imprese vivevano un crescente disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: circa un terzo delle aziende italiane lamentava difficoltà di reclutamento, e circa un quarto dei profili professionali era di difficile reperimento. L’irrompere del Covid-19 ha portato a un radicale cambio di prospettiva, spostando il focus dal mismatch tra domanda e offerta alla disemployability, ossia l’esclusione strutturale dal mercato del lavoro — che nel nostro Paese rischia di concentrarsi soprattutto sui giovani, sulle donne e le categorie più deboli, a causa degli impatti settoriali della crisi e di processi di lungo periodo di polarizzazione asimmetrica del mercato italiano (creazione di molti più posti di lavoro a bassa qualifica che occupazioni qualificate).
Secondo “Closing the Skills Gap: What Workers Want”, il paper pubblicato da ManpowerGroup nel febbraio 2020, l’Italia è al terzo posto nella classifica dei Paesi con il più elevato talent shortage (47%): i datori di lavoro italiani, insieme a quelli di Stati Uniti e Messico, non riescono a trovare lavoratori con le giuste competenze. La percentuale di aziende in Italia che non riesce a trovare le competenze ricercate raggiunge l’84% nelle aziende con oltre 250 dipendenti. Secondo il sistema informativo Excelsior, nel 2018 oltre il 25% delle figure professionali censite erano difficili da reperire da parte delle imprese, con quote sensibilmente più elevate per le professioni specialistiche (38%), tecniche (37%), operai specializzati (38%) e laureati (35%).
Un’analisi del Fondo Monetario Internazionale, “Teleworking is Not Working for the Poor, the Young, and the Women”, del 7 luglio 2020 evidenzia le fasce più a rischio di disoccupazione o di inattività:
• I giovani lavoratori e coloro che non hanno un’istruzione universitaria, con conseguente aumento delle disuguaglianze intergenerazionali;
• La forza lavoro femminile, concentrata nei settori più duramente colpiti, come la ristorazione e l’ospitalità. Inoltre, le limitazioni ai servizi di babysitting e cura degli anziani sono causa di un ulteriore carico di lavoro domestico che ricade soprattutto sulle donne;
• I lavoratori a tempo parziale, i dipendenti delle piccole e medie imprese e i lavoratori informali;
• I profili professionali considerati di “primo ingresso” — soprattutto nelle professioni tecniche, professioni operative nel lavoro d’ufficio, professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, in quanto normalmente associate a un basso grado di autonomia lavorativa e alla scarsa “remotizzabilità” delle mansioni.
Le professioni con tendenza occupazionale positiva sono 30 (si parla di “tendenza” e non di valori “assoluti”), di cui 17 direttamente correlate all’informatica e alla tecnologia in generale (ossia il 57% del totale). Il secondo macro-cluster (5 su 30, pari al 17% delle prime 30 professioni) è rappresentato da istruzione e formazione. Il terzo è relativo al supporto alla persona, con diretto riferimento all’inserimento o reinserimento lavorativo (3 su 30, pari al 10%).
I partecipanti alla ricerca menzionata concordano sul formare il personale in maniera specifica per affrontare le grandi trasformazioni in atto nel mercato del lavoro. Le professioni in decrescita sono tendenzialmente quelle associate ad alti livelli di attività fisiche e psicomotorie, anche perché spesso correlate ad attività fortemente ripetitive e pertanto soggette ad un elevato rischio di automazione. In molti casi la decrescita risulta associata alla mancanza di adattabilità (un’abilità di natura sociale) nel set di competenze della professione. In altrettante eventualità, la tendenza al ribasso della professione è dovuta alla verticalità della specializzazione (elevate abilità tecniche e conoscenze) associata ad una scarsa adattabilità e alla crisi del settore professionale di riferimento.
La ricerca “Professioni 2030” della società EY (Ernst & Young), Pearson e Manpower pubblicata a febbraio 2021 ha lo scopo di costruire un modello predittivo della domanda di professioni e competenze in Italia nell’arco dei prossimi dieci anni. Il modello prevede che più di un terzo della forza lavoro attuale svolga professioni che cresceranno nei prossimi dieci anni (circa il 36%). Poco più della metà delle professioni in crescita saranno collegate a vario titolo alla tecnologia; aumenteranno anche professioni legate alla cultura, alla comunicazione, ai servizi di cura (di carattere sanitario e non), all’insegnamento e alla formazione. Anche questa analisi conferma che la crescita dell’occupazione si concentrerà sui livelli di qualifiche più alti. Il modello, inoltre, permette di identificare gruppi di competenze e caratteristiche personali più frequentemente associati alla crescita e alla trasformazione delle professioni. Si tratta, in primo luogo, di un set di competenze che abbiamo definito “fondamentali” — apprendimento attivo attraverso forme sociali e relazionali, capacità di adattamento, di anticipazione e comprensione degli altri, complex problem-solving — strettamente associate alle occupazioni in crescita, e che dovrebbero essere incluse in qualsiasi programma educativo e\o formativo che miri a contrastare la disemployability.
Il modello formula, infine, previsioni su come cambieranno le professioni nei prossimi 10 anni. Più del 50% delle professioni evolveranno in modo non lineare. Vedremo in molti casi la fusione di due o più professioni esistenti, con la sparizione delle professioni di origine (i «progettisti di visite ed eventi virtuali»), ovvero la creazione di nuove professioni per scissione di competenze, che tuttavia non implica necessariamente la distruzione della professione di origine (gli specialisti di “interfacce” umane). Altre professioni muteranno per ibridazione, ossia “copiando” sottoinsiemi di competenze da set propri di altre professioni: ad esempio, gli addetti all’assistenza personale dovranno imparare ad usare device connessi per la telemedicina e allo stesso tempo acquisire competenze di psicologia e orientamento al servizio.
La complessità dello scenario che il modello descrive e la sua evoluzione costante rendono necessario proseguire e sviluppare ulteriormente queste analisi. A questo fine, EY, Pearson e Manpower intendono istituire un Osservatorio permanente, che opererà dei focus specifici su aree del Paese, singoli settori o distretti economici. Essenziale rimane l’impegno nel rilanciare il tema delle competenze nei percorsi di istruzione e formazione, che sono le leve strategiche fondamentali su cui investire per formare la next generation centrale per il rilancio del Paese.
La “Global Commission on the future of the work” dell’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite, nel report del 2019 “Work for a brighter future” mette in evidenza la necessità di un aumento delle capacità delle persone, in particolare per i seguenti punti:
• Lifelong learning, ossia apprendimento continuo nel corso della vita, che permetta alle persone di acquisire capacità nuove e “migliori” nel corso della propria carriera;
• Rafforzare le politiche e le strategie che sosterranno le persone nel futuro delle transizioni lavorative;
• Implementare un’agenda trasformativa e misurabile per l’uguaglianza di genere, anche in vista del sempre maggior ricorso allo smart working;
• Fornire protezione sociale universale dalla nascita alla vecchiaia;
Nell’epoca post-Covid i punti sopra esposti saranno di sempre maggiore importanza.
Formazione
La formazione dei lavoratori sarà sempre più cruciale, anche in ottica di un debito pubblico italiano che potrà sempre meno permettersi politiche passive del lavoro. In Italia il primo strumento per la formazione continua del lavoratore è stata la legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori. Tale legge garantisce al lavoratore il congedo retribuito per 150 ore all’anno per qualsiasi percorso di studio (i.e. le “150 ore di diritto allo studio”). L’ultima evoluzione riguarda il contratto dei metalmeccanici, per il quale nel 2021–2024 è previsto che le aziende finanzino i servizi per la formazione con il versamento nel mese di luglio di una tantum di 1,5 euro per dipendente. Si potrà contare su una dote complessiva cospicua, considerando che i lavoratori metalmeccanici superano il milione nel territorio italiano.
In Italia è stato poi inserito nel decreto rilancio di agosto 2020 il “Fondo nazionale nuove competenze”, ideato per mettere in relazione i fondi strutturali europei per la formazione (quelli per il Next Eu), i fondi interprofessionali e quelli regionali, e finanziare con debito pubblico una riduzione dell’orario di lavoro per l’aggiornamento dei lavoratori il cui posto di lavoro è minacciato dai cambiamenti in atto. Il fondo è in capo all’Anpal, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro.
In merito alla formazione, Google ha lanciato i “Google certificates”, titoli basati su corsi specifici ottenibili nell’arco di appena sei mesi, al costo di 49 dollari al mese. Ai fini della sua selezione interna, Google li considererà al pari di alcuni diplomi di laurea. Questo ultimo fatto, non isolato, mette in discussione il mondo dell’università.
Per Giovanni Biondi, presidente di Indire, l’istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca innovativa: «Quello di cui c’è bisogno oggi sono le competenze, non il titolo di studio, perché spesso i due non sono allineati. Sul mercato di certi settori, come quello informatico, dell’intelligenza artificiale eccetera, è questo che serve», spiega.
In un mondo che cambia velocemente, i percorsi di formazione classici pluriennali faticano a star dietro al tasso di aggiornamento delle tecnologie. Spesso chi studia ingegneria o informatica all’università è poi costretto ad apprendere nuove metodologie e competenze prima di allora sconosciute nel momento di ingresso in azienda. Le imprese necessitano infatti di professionisti con competenze specifiche, e spesso si vedono costrette a portare avanti una formazione interna per formare autonomamente i propri lavoratori.
Un esempio è il quadrilatero dell’auto Motor Valley tra Fornovo e Modena, che unisce Ducati, Dallara, Lamborghini e Ferrari. «Le auto di oggi sono talmente diverse rispetto al passato che ormai non servono più gli ingegneri meccanici ed elettronici, ma qualcuno che sappia entrambe le cose», spiega Biondi. Così in Motor Valley le aziende hanno introdotto quattro percorsi post-laurea in cui professori universitari e docenti dalle imprese lavorano per formare nuovi lavoratori dotati delle competenze a loro necessarie. «Rompono uno schema rigido: oggi abbiamo bisogno di superare le classi disciplinari universitarie. In Italia abbiamo 372 settori disciplinari, una frammentazione che va contro ciò che avviene nel mondo reale», dice ancora il Presidente.
Per Martino Bernardi, ricercatore della Fondazione Agnelli, rimane primario il problema della cosiddetta employability: se nemmeno l’università forma a dovere, il rischio è solo di rimandare il problema ulteriormente. «Nei prossimi 15 anni nasceranno professioni che oggi non esistono: non abbiamo ancora un corso di laurea per questi mestieri, ma ciò che appare più evidente è che via via gli studenti si troveranno di fronte ad alcune professioni obsolete, sostituiti da robot e intelligenze artificiali. Mai come oggi si dovrebbe puntare a fornire a diplomati e non, percorsi legati alle Stem (i.e.: scienze, tecnologia, ingegneria, matematica), affinché i ragazzi abbiano competenze scientifiche e tecniche che diventeranno sempre più rilevanti», conclude il ricercatore.
Insomma, l’università può non diventare obsoleta, a patto di raccogliere e non ignorare la sfida che Google, e non solo, le ha lanciato.
Mobilità dei lavoratori
Per i premi Nobel dell’economia del 2019 Banerjee e Duflo, la mobilità interna e internazionale è un canale fondamentale per allineare il tenore di vita nelle diverse regioni e paesi, assorbendone gli alti e bassi economici. Se i lavoratori si sposteranno, potranno approfittare delle nuove opportunità e lasciare le aree colpite da avversità economiche: è in questo modo che un’economia riesce ad assorbire le crisi e adattarsi alle trasformazioni strutturali. Tuttavia, Banerjee e Duflo sostengono anche che, a causa della “vischiosità” del mercato del lavoro, il trasferimento dei lavoratori non sia così automatico, tutt’altro: negli ultimi anni sono stati rilevati casi empirici che dimostrano l’inerzia del mercato del lavoro (Stati Uniti, Spagna, Norvegia e Germania). Inoltre, alcune proiezioni sul futuro del mercato del lavoro vedono l’Italia e la Germania con numerosi problemi di reclutamento del personale a causa della curva demografica: il numero dei nuovi pensionati sarà troppo alto rispetto all’entrata dei nuovi lavoratori, ossia non ci saranno abbastanza nuovi lavoratori per rimpiazzare i neo pensionati. In aggiunta, molti skill gap in alcune zone del Paese sarebbero colmati da professionalità provenienti da altre parte di Italia o Europa — e, perché no, da fuori Europa.
Cambiare mestiere e trasferirsi altrove sono due cose complicate, ma sono anche un’opportunità, per l’economia e per i singoli individui, di trovare l’abbinamento migliore fra talento e impiego. Un programma pensato per migliorare le transizioni lavorative dovrebbe essere un diritto universale, ma a differenza ad esempio del Reddito di Base Universale, che è semplicemente un diritto universale ad avere un reddito, questo programma sarebbe legato a qualcosa che è parte integrante dell’identità sociale: ognuno di noi dovrebbe avere diritto a una vita produttiva all’interno della società.
Green economy
Il programma delle Nazioni Unite sull’Ambiente definisce la green economy un “generatore netto di posti di lavoro decorosi, salari adeguati, condizioni di lavoro sicure, sicurezza del posto di lavoro, ragionevoli prospettive di carriera e diritti per i lavoratori”. Sulla stessa lunghezza d’onda, anche Unfccc (Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici — in inglese United Nations Framework Convention on Climate Change) e l’Ilo, per i quali le azioni per mitigare i cambiamenti climatici creano occupazione di alta qualità. Un impatto sul mercato del lavoro in Italia dalla green economy è dato da Ecomondo, fiera dedicata all’economia circolare e alle energie rinnovabili.
La Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha presentato uno studio sugli effetti economici e occupazionali, nei prossimi cinque anni, di un pacchetto di misure di green economy che per ogni euro di investimento pubblico ne attiverebbero altri tre privati, con un rilevante incremento di unità di lavoro cumulate, pari a ben 2,2 milioni che, con l’indotto, arriverebbero a 3,3 milioni di posti. Edo Ronchi, presidente della Fondazione, spiega che servirebbero «tra i 7 e gli 8 miliardi di investimenti pubblici annui per i prossimi cinque anni, che attiverebbero 21,4 miliardi di investimenti privati annui, generando un valore di produzione di 74 miliardi e in media 440 mila nuovi posti di lavoro green ogni anno che, tenendo conto dell’indotto, arriverebbero a oltre 660mila». Con un’avvertenza: «Accanto allo stanziamento delle risorse servirebbero anche delle misure normative».
Agli Stati generali della Green economy sono state presentati i dieci interventi che aiuterebbero sia la ripresa sia la nuova occupazione: il raddoppio delle fonti rinnovabili, azioni di riqualificazione profonda degli edifici privati e pubblici, il conseguimento dei nuovi target europei di riciclo dei rifiuti, la realizzazione di un grande programma di rigenerazione urbana, il raddoppio degli investimenti nell’eco-innovazione, misure per la mobilità urbana sostenibile e per l’agricoltura ecologica e di qualità, la riqualificazione del sistema idrico nazionale, il rafforzamento della prevenzione del rischio idrogeologico, fino al completamento delle bonifiche dei siti contaminati.
Conclusioni
Riassumendo, questi sono i punti su cui la politica dovrebbe focalizzarsi:
· Salvare i lavoratori (formati) piuttosto che posti di lavoro obsoleti e in settori decotti;
· Incentivare il lifelong learning dei dipendenti con programmi che puntino a innalzare o ampliare le competenze;
· Puntare sulle politiche attive del lavoro, migliorando e rendendo efficaci i centri dell’impiego;
· Salvaguardare la dignità e il benessere delle persone che perderanno il loro impiego in seguito all’attuale cambio epocale del mondo del lavoro;
· Incentivare la mobilità dei lavoratori;
· Puntare sulla formazione in settori a maggior valore aggiunto, per aumentare anche la produttività del “sistema” Italia e di conseguenza la sua ricchezza;
· Aumentare la collaborazione fra università, centri di ricerca e aziende.
Futuro del lavoro e skill gap
«Il futuro è già arrivato. Solamente non è ancora stato uniformemente distribuito» ha scritto William Gibson, autore di Cyberpunk. Lo skill gap è la differenza di abilità e competenze tra la richiesta dal lato della domanda di lavoro rispetto all’offerta: al giorno d’oggi, non solo mancano le competenze per alcuni lavori (specialmente di nascita recente), ma molte persone sono…