Cambiamenti climatici e politica energetica
Il cambiamento climatico e la decarbonizzazione Nell’ultimo secolo e mezzo l’industrializzazione e il progresso tecnologico hanno portato importanti benefici e migliorato la vita dell’uomo sotto tanti aspetti, che includono l’allungamento dell’aspettativa di vita, una maggiore scolarizzazione, una…
Il cambiamento climatico e la decarbonizzazione
Nell’ultimo secolo e mezzo l’industrializzazione e il progresso tecnologico hanno portato importanti benefici e migliorato la vita dell’uomo sotto tanti aspetti, che includono l’allungamento dell’aspettativa di vita, una maggiore scolarizzazione, una più equa distribuzione delle ricchezze, il riconoscimento dei diritti umani fondamentali e un’estensione dei diritti sociali e politici ad una fascia di popolazione sempre più larga, come mai prima nella storia dell’umanità.
Le attività umane sono però diventate sempre più energivore e l’utilizzo di fonti di energia soprattutto fossili ha aumentato significativamente la concentrazione in atmosfera di anidride carbonica e altri gas serra, causando un aumento della temperatura media del pianeta di quasi 1°C rispetto al XIX secolo e di circa 0.5°C solo negli ultimi 60 anni [1].
Figura 1. Emissioni totali di gas serra nel mondo per anno dal 1750 al 2019, image credit.
I modelli matematici prevedono che, in caso di mancato intervento, la temperatura aumenterà di ulteriori 4°C entro la fine del XXI secolo [1], con conseguenze importanti sul clima che genererà fenomeni atmosferici sempre più violenti con un costo in termini di vite umane, di danni all’economia, ma anche di guerre per l’approvvigionamento di risorse e migrazioni [2].
A fronte di uno scenario potenzialmente catastrofico, gli studi scientifici concordano sul fatto che non sia ancora stato raggiunto il cosiddetto “punto di non ritorno”, e che sia possibile interrompere questo processo, prima che diventi irreversibile [3].
Negli ultimi anni la maggior parte dei paesi ha preso atto del problema e sono stati sottoscritti diversi trattati internazionali che impegnano chi aderisce ad intervenire per diminuire le proprie emissioni. L’obiettivo degli accordi di Parigi, sottoscritti nel 2015, è limitare l’incremento di temperatura, rispetto i livelli del XIX secolo, a 1.5 °C [4], ciò significa che le emissioni mondiali di gas serra dovrebbero essere dimezzate ogni decade a partire dal 2020 [5, 6].
Si tratta di un obiettivo molto ambizioso, e ormai difficile da raggiungere [7], ciononostante una rapida decarbonizzazione dovrebbe mantenere l’aumento di temperatura entro i 2°C, limite massimo che permetterebbe comunque di contenere i danni del riscaldamento globale.
Figura 2. (Sinistra) Percorso di riduzione delle emissioni di CO2 annuali, image credit. (Destra) Percorsi di riduzione della CO2 e obiettivi di contenimento della temperatura secondo diversi scenari, image credit.
Per raggiungere tale scopo occorre intervenire nel settore maggiormente responsabile delle emissioni di gas serra, che attualmente è il settore energetico. Ad esempio nell’Unione Europea (UE), il settore energetico, che comprende produzione di energia elettrica, trasporto, riscaldamento ed utilizzo di energia per le industrie manifatturiere, contribuisce a circa l’80% delle emissioni totali [8].
Se si azzerassero le emissioni del settore energetico entro il 2065, l’obiettivo dell’aumento massimo di 2°C sarebbe raggiunto [9, 10].
A tale scopo, molti paesi, tra cui l’Italia, hanno cercato di ridurre la dipendenza da combustibili fossili e aumentare la quota di energia elettrica prodotta dalle cosiddette fonti di energia rinnovabile, quali il Sole, il vento, le risorse idriche e geotermiche.
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Figura 3. Emissioni di CO2 equivalente in milioni di tonnellate nell’UE per settore, source.
Produzione di energia elettrica in Italia
Nel 2019 il fabbisogno di energia elettrica in Italia è stato di 319 TWh, la produzione nazionale lorda è stata di 294 TWh, prodotti rispettivamente da idroelettrico (16%), da termoelettrico (67%), geotermico (2%), eolico (7%) e fotovoltaico (8%) [11].
Tra le cosiddette rinnovabili, la produzione di energia elettrica da idroelettrico e geotermico è stata costante negli ultimi anni, poiché lo sfruttamento di queste fonti è sostanzialmente saturo [12], mentre la produzione da fotovoltaico ed eolico è aumentata notevolmente.
Tuttavia, ciò è stato possibile solo grazie ad un importante impegno economico, una cifra tra i 10 e i 15 miliardi di euro l’anno [13], prelevati dalle bollette di famiglie e imprese (tra le più alte in UE), che permettono alle rinnovabili di essere competitive nel mercato elettrico italiano.
Figura 4. Oneri in bolletta per sostenere le fonti rinnovabili in Italia, image credit.
Nel 2017, l’Italia ha speso in media, in rapporto al totale dell’energia prodotta da rinnovabili, 167 €/MWh, e 285 €/MWh solo per il fotovoltaico che è sostenuto con più di metà di tutti i sussidi a disposizione [14]. In termini di sostegno alle rinnovabili, l’Italia segue Repubblica Ceca, Cipro e Malta, ma precede la Germania che nello stesso anno ha speso 131 €/MWh per sostenere il costo delle rinnovabili [14, 15].
I limiti delle fonti rinnovabili
Nonostante gli sforzi per incentivare l’uso delle rinnovabili, i risultati, sia in termini di produzione di elettricità, che in termini di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, sono stati deludenti.
Nel 2017, Italia e Germania hanno emesso rispettivamente 307 e 413 gCO2eq / KWh (grammi di anidride carbonica equivalente per kilowattora prodotto), peggior risultato solamente dopo la Polonia che emette 641 gCO2eq / KWh. La Francia invece emette appena 68 gCO2eq / KWh [16, 17].
Ciò è dovuto al fatto che nonostante sia aumentata significativamente la potenza installata di fonti rinnovabili, non è stato possibile ridurre la dipendenza da combustibili fossili, soprattutto gas in Italia e carbone in Germania.
Oltre alla scarsa convenienza economica, esistono infatti problemi intrinseci alle rinnovabili che non permettono di essere da sole un’alternativa valida.
Tra questi, ricordiamo il basso fattore di capacità (circa 15% per il fotovoltaico e 25% per l’eolico), cioè il basso rapporto tra energia effettivamente prodotta ed energia massima producibile, la bassa densità energetica e il bisogno di ampie superfici [18].
Inoltre, la non programmabilità e quindi lo stretto legame tra produzione di energia, condizioni meteorologiche e il ciclo giorno-notte, non soddisfano le esigenze delle attività umane.
Per esempio l’Italia ha un carico di base, cioè una domanda minima di energia (di notte e nelle stagioni a minor consumo), di circa 20 GW di potenza. Nonostante i 21 GW di impianti fotovoltaici, gli 11 GW di eolico, i 22 GW di idroelettrico e i circa 5 GW di geotermico e bioenergie [19], il carico di base dell’Italia continua ad essere soddisfatto da fonti termiche (gas e carbone) per il 70% [20].
Figura 5. Potenza in GW per fonte energetica erogata in Italia tra il 15 e il 21 marzo, image credit.
Un altro problema, emerso in molti paesi soprattutto negli ultimi anni, è lo stress cui sono sottoposte le reti elettriche, le quali non riuscendo ad incontrare efficientemente la domanda, causano blackout e danni alle apparecchiature collegate [21].
Per ovviare a queste problematiche è stato proposto di affiancare alle rinnovabili sistemi di stoccaggio (sistemi di pompaggio e batterie) per immagazzinare energia prodotta quando non serve, al fine di utilizzarla quando non è possibile produrla. Tuttavia, i primi sono già ampiamente sfruttati e hanno comunque un impatto notevole per il territorio [22]. Invece le batterie presentano una serie di problemi legati alla produzione e allo smaltimento di batterie che sono processi molto inquinanti [23].
Ricordiamo infine che pannelli fotovoltaici, pale eoliche e batterie richiedono grandi quantità di materie prime [24].
Recentemente è stato stimato che l’intera attività mineraria legata a rinnovabili e sistemi di accumulo potenzialmente influisce su 50 milioni di km2 di superficie terrestre, una superficie di poco superiore a quella dell’Asia [25, 26].
Inoltre, l’estrazione mineraria avviene nei paesi in via di sviluppo dove la manodopera locale viene sfruttata con poco riguardo per i diritti umani [27, 28].
L’energia nucleare
L’energia nucleare è l’energia che viene liberata in seguito a reazioni nucleari, cioè processi fisici che riguardano il nucleo degli atomi. Le due fondamentali reazioni nucleari sono il processo di fissione e di fusione degli atomi, ma oggi, siamo in grado di sfruttare solo la prima al fine di produrre energia elettrica.
Durante la fissione nucleare, un nucleo si scinde in diverse componenti, liberando una notevole quantità di energia. Il calore rilasciato viene quindi utilizzato per produrre vapore acqueo che, azionando una turbina, genera elettricità [29].
Il tipico combustibile dei reattori nucleari è l’uranio, un metallo molto denso (19 tonnellate per metro cubico), presente in natura principalmente come miscela di due isotopi, l’uranio 238 (99,275%) e l’uranio 235 (0,72%). Quest’ultimo è di particolare interesse poichè è l’unico isotopo fissile, cioè con un’elevata probabilità di fissione.
Affinché sia sfruttabile nei reattori nucleari è però necessario aumentare la concentrazione di uranio 235 e portarla ad almeno il 3% attraverso la procedura di arricchimento dell’uranio. Una percentuale molto bassa se confrontata rispetto a quella necessaria per realizzare una bomba atomica, che necessita di una concentrazione dell’uranio 235 all’80% [30].
L’uranio offre una serie di vantaggi rispetto ai combustibili fossili. Tra queste spicca l’elevata densità energetica che si traduce nella necessità di un quantitativo molto basso di combustibile. Ad esempio, mentre un chilogrammo di carbone genera 3–8 kWh di energia elettrica, un chilogrammo di uranio genera fino a 400.000 kWh [31]. Così, mentre una centrale a carbone da 1000 MWe ha bisogno di 9000 tonnellate di carbone al giorno, un reattore nucleare PWR di uguale potenza può produrre ininterrottamente energia elettrica da 27 tonnellate di uranio in un anno [32, 33]. Un’altro aspetto importante rispetto ai combustibili fossili è che tra i maggiori esportatori di uranio ci sono democrazie stabili quali Canada e Australia [33].
Confrontata con le rinnovabili, il principale vantaggio dell’energia nucleare è l’alto fattore di capacità, pari al 90%, che la rende una fonte energetica affidabile, sempre disponibile quando necessaria. Inoltre, una centrale nucleare, a parità di kilowattora prodotto, occupa una superficie molto più piccola dei campi fotovoltaici ed eolici.
Costi del nucleare
Per quanto riguarda l’aspetto economico, i costi dell’energia nucleare comprendono i costi di fabbricazione della centrale, il costo del carburante (estrazione e arricchimento dell’uranio), i costi di gestione e manutenzione, lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi e lo smantellamento della centrale una volta giunta a fine vita. Complessivamente questi fattori rendono l’energia nucleare molto competitiva sul mercato elettrico, sia rispetto le fonti fossili che rinnovabili.
Esiste però un ulteriore fattore, non legato alla tecnologia, né al combustibile, ma determinante sul prezzo finale del kilowattora. Si tratta dell’interesse sul capitale per la costruzione della centrale, che è legato al rischio regolatorio, alla stabilità politica del paese e al rispetto dei tempi di consegna. Mentre con un tasso di interesse al 10% il prezzo finale oscilla tra 50 e 140 $/MWh, con un tasso di interesse al 3% il costo finale scende tra 30 e 60 $/MWh, cifre inferiori sia al gas, che al carbone [34, 35, 36, 37].
Figura 6. Costo dell’elettricità in $/MWh prodotta da gas naturale, carbone e nucleare con tasso di interesse al 3% e al 10%, image credit.
Tempi di costruzione di una centrale nucleare
Attualmente sono in funzione 440 reattori nucleari con una potenza che varia da 600 MWe a 1700 MWe, e altri 106 reattori sono o in fase di progettazione o in costruzione. Si tratta di opere ingegneristiche molto complesse, che in alcuni casi hanno subito un significativo aumento dei tempi di costruzione e quindi dei costi. Si pensi al terzo reattore della centrale di Flamanville in Francia e al terzo reattore della centrale di Olkiluoto in Finlandia, i cui ritardi sono dovuti anche al fatto che si tratta di una tipologia di reattori, l’EPR, mai realizzata in precedenza, spesso osteggiata dalle autorità e dalla popolazione locale [38].
Tuttavia, il tempo medio di costruzione di un reattore è 7.5 anni e l’85% dei reattori attualmente in funzione è stato completato in meno di 10 anni [39].
L’industria nucleare negli ultimi anni ha cambiato strategia. Invece che puntare a impianti di grande potenza, si sta lavorando su reattori modulari (SMR) di piccola potenza (sono definiti tali reattori con potenza inferiore a 300 MWe), che possano essere prodotti in serie al fine di ridurre i tempi di costruzione e i costi [40].
Tra i progetti più interessanti, ricordiamo il reattore modulare di NuScale Power, che recentemente ha ricevuto l’approvazione finale da parte delle autorità statunitensi [41] e quello di Rolls-Royce, la quale sta avviando dei progetti per il Regno Unito e la Repubblica Ceca [42, 43].
Figura 7. Tempo di costruzione dei 441 reattori nucleari operativi nel 2016, image credit.
Sicurezza
Un altro aspetto determinante nelle politiche energetiche degli stati riguarda la sicurezza delle centrali nucleari. Gli incidenti di Chernobyl e Fukushima hanno infatti segnato profondamente l’opinione pubblica riguardo il nucleare.
Nel primo caso le responsabilità sono da attribuirsi esclusivamente all’uomo, sia per quanto riguarda la progettazione del reattore coinvolto, che per quanto riguarda la gestione dell’emergenza. Nel secondo caso invece, l’incidente è stato conseguenza di uno tsunami, causato da uno dei terremoti più violenti mai registrati nella storia.
Nonostante questi incidenti abbiano avuto conseguenze importanti sull’ambiente e sulla salute, oggi sappiamo che i danni causati sono inferiori a quanto raccontato dai media e dalla politica per anni [44, 45, 46, 47] e che l’energia nucleare è oggi la fonte energetica più sicura disponibile [48, 49, 50, 51].
Figura 8. Mortalità per fonte energetica (sinistra) ed emissioni di gas serra per TWh prodotto (destra), image credit.
Radioattività
La radioattività è il fenomeno naturale per cui nuclei di atomi particolarmente instabili si trasformano emettendo particelle alfa (nuclei di elio), particelle beta (elettroni o positroni) o radiazione gamma (radiazione elettromagnetica ad alta frequenza).
Elementi radioattivi sono presenti ovunque, anche nel nostro corpo (ad esempio il potassio 40), ma costituiscono un problema per gli organismi viventi solo quando l’esposizione a fonti di radiazioni con un alto numero di decadimenti al secondo è prolungata nel tempo [52].
Nell’ultimo secolo le attività dell’uomo che sfruttano le proprietà degli elementi radioattivi, si sono moltiplicate. Queste includono diverse attività industriali (ad esempio la sterilizzazione di alimenti per radiazione o il controllo radiografico delle saldature), terapie mediche (ad esempio la radioterapia), la ricerca scientifica e l’industria nucleare [53].
Rifiuti radioattivi
Le attività umane che impiegano elementi radioattivi comportano però anche la produzione di rifiuti radioattivi, ovvero materiali di scarto con una concentrazione di elementi radioattivi non trascurabile, che possono costituire un problema per l’ambiente e la salute se non opportunamente trattati.
Il problema delle scorie nucleari ha da sempre destato molta preoccupazione nell’opinione pubblica, ma se confrontate con gli inquinanti prodotti da altre fonti, costituiscono un fattore di rischio per la salute di gran lunga inferiore.
Ad esempio le centrali a carbone, oltre ad essere responsabili dell’aumento di concentrazione di anidride carbonica, immettono in atmosfera diversi inquinanti, quali ossidi di azoto, monossido di carbonio, metalli pesanti, ma anche ceneri radioattive che vengono disperse nell’ambiente [54]. Al contrario, una centrale nucleare non emette gas serra, né altri inquinanti. Le scorie prodotte rimanendo all’interno del reattore sono facilmente gestibili.
I rifiuti radioattivi non sono tutti uguali e non necessitano del medesimo trattamento.
La classificazione dipende da paese a paese, ed è definita tenendo conto sia del tempo di decadimento, che del numero di decadimenti per unità di massa. In Italia, il Ministero dell’Ambiente ha individuato cinque categorie [55].
A seconda della pericolosità dei rifiuti e del tempo di decadimento, essi possono essere stoccati in depositi temporanei (alcuni decenni), in depositi di superficie provvisori di lunga durata (300 anni) o in depositi geologici definitivi.
Rifiuti radioattivi in Italia
Il volume dei rifiuti radioattivi presenti in Italia è di circa 30.000 m3 (il volume di 12 piscine olimpioniche): il 16% proveniente dalla ricerca, il 31% da medicina e industria, il 30% dalle vecchie centrali nucleari e il 23% legato al ciclo del combustibile [56]. La maggior parte dei rifiuti radioattivi è di bassa o media attività ed è dislocata in ventidue siti, in attesa di essere stoccati nel “Deposito Nazionale” [57], un centro che dovrà conservare i rifiuti radioattivi prodotti in Italia per almeno 300 anni [58].
Invece i rifiuti ad alta radioattività prodotti in Italia, che costituiscono appena 40 m3 (il volume di un container di media grandezza, sono attualmente in Gran Bretagna e Francia per il riprocessamento. Se confrontati con rifiuti industriali di altro genere, si tratta di numeri inferiori di diversi ordini di grandezza. Ad esempio nel 2016 sono stati prodotti in Italia 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui quasi 10 milioni classificati come pericolosi per ambiente e salute, poiché contenenti un’elevata concentrazione di sostanze inquinanti (ad esempio l’amianto) [59].
Rifiuti radioattivi dell’industria nucleare
I rifiuti radioattivi prodotti nelle centrali nucleari includono semplici attrezzature utilizzate dal personale, quali guanti e tute di sicurezza, ma anche resine speciali, componenti del reattore derivanti dal decommissioning e lo scarto del combustibile nucleare.
Quest’ultimo rappresenta la componente dei rifiuti radioattivi provenienti dall’industria nucleare più pericolosa, ma è anche quella più piccola.
Dopo quattro anni di produzione di energia elettrica in un reattore, il combustibile nucleare è composto al 95% da uranio, all’1% da plutonio, e da altri prodotti di fissione.
Circa il 96% del combustibile esaurito è riciclabile, mentre ciò che rimane necessita di essere stoccato in depositi geologici [60].
La Francia, dove da diversi decenni sono attivi 58 reattori che garantiscono il 75% del fabbisogno di energia elettrica del paese, produce pro capite appena 1 Kg di rifiuti radioattivi, di cui solo 11 grammi sono rifiuti ad alta attività. In totale, in un anno, si tratta di un volume di 4 m3, inferiore al volume di una utilitaria [61].
Nonostante si tratti di quantità modeste, i rifiuti ad alta attività provenienti dal combustibile esaurito necessitano un trattamento speciale.
Le barre di uranio esaurite devono essere raffreddate per alcuni anni in apposite piscine, vengono quindi vetrificate e sigillate in opportuni contenitori, i cosiddetti cask, che possono essere di acciaio inossidabile, ceramica o cemento [62]. Questi contenitori vengono conservati inizialmente in depositi temporanei, quindi trasferiti in depositi geologici, ovvero strutture sotterranee che garantiscono l’isolamento del contenuto dall’ambiente per diverse migliaia di anni, fin quando la radioattività non sarà diminuita a valori paragonabili a quelli del fondo ambientale [63].
I depositi geologici devono soddisfare una serie di caratteristiche, quali la stabilità e l’impermeabilità delle rocce [64]. Attualmente diversi siti sono stati proposti nel mondo. In Finlandia nel 2023 entrerà in funzione il primo deposito geologico [65]. La costruzione di un altro deposito geologico definitivo è stata recentemente approvata in Svezia e inizierà i prossimi anni [66].
L’energia nucleare in Italia
L’Italia è stato uno dei paesi pionieri dell’industria nucleare, ma ha deciso di rinunciarvi in seguito a un referendum, svolto sull’onda emotiva dell’incidente di Chernobyl, che portò alla chiusura delle quattro centrali allora operative e alla chiusura del cantiere della centrale di Montalto di Castro, che fu poi sostituita con una centrale termoelettrica alimentata a olio combustibile e metano.
Questa scelta ha portato l’Italia a dipendere principalmente dal gas naturale [67], un combustibile fossile che contribuisce significativamente alle emissioni di gas serra [68] e che importiamo da paesi con scarsa cultura democratica e dei diritti umani, spesso coinvolti in guerre locali per il controllo dei giacimenti, quali la Libia, la Russia [69] e nel prossimo futuro l’Egitto [70].
La scelta dell’Italia non solo non ha portato benefici dal punto di vista economico e della lotta alle emissioni di gas serra, ma ha avuto conseguenze importanti sulla nostra politica estera.
L’energia nucleare all’estero
Anche altri paesi hanno deciso di rinunciare all’energia nucleare.
La Svizzera nel 2019 ha annunciato di sostituire le ultime centrali nucleari con centrali a gas [71].
La Germania, che nei primi anni 2000 produceva circa il 25% della propria energia elettrica tramite nucleare, ha annunciato di voler chiudere le proprie centrali entro il 2022. Nonostante i sostanziosi sussidi alle rinnovabili, non riesce però a ridurre la dipendenza dal termoelettrico. La chiusura delle centrali a carbone è prevista nel 2038, ma nel frattempo è stata aperta nel 2020 una nuova centrale a carbone da 1100 MW nella Renania Settentrionale-Vestfalia che godrà di una proroga per funzionare oltre il 2038 [72], e nuove centrali a gas sono in programma [73, 74].
Questa faticosa transizione ha inoltre richiesto importanti investimenti per aggiornare la rete elettrica [75] per sopperire ai danni causati dall’instabilità delle rinnovabili, i cui costi ricadono sulle bollette degli utenti che sono cresciute significativamente negli ultimi anni [76].
Nonostante la politica tedesca sia determinata su questa strada, sembra però che l’opinione pubblica tedesca stia cambiando opinione riguardo il nucleare [77].
Il Giappone fino al 2011 produceva circa il 30% dell’energia elettrica grazie al nucleare [78]. In seguito all’incidente di Fukushima ha spento i propri reattori, portando la produzione di energia elettrica da combustibili fossili al 90% del totale [79]. Tuttavia, il paese sta considerando di riattivare le proprie centrali nucleari anche per far fronte al problema del cambiamento climatico [80].
Tanti altri paesi hanno invece scelto, o stanno decidendo, di puntare sul nucleare.
La Francia, uno dei paesi con le più basse emissioni di CO2 nell’Unione Europea, produce circa il 75% della propria energia elettrica tramite nucleare [81] e sta considerando di costruire sei nuovi reattori EPR nei prossimi anni [82].
Il Regno Unito produce circa il 20% della propria elettricità con il nucleare.
Attualmente è in costruzione la centrale EPR di Hinkley Point C e una nuova centrale EPR è in fase di approvazione a Sizewell C [83]. Inoltre Rolls-Royce ha annunciato un piano che prevede la costruzione di sedici reattori modulari [84].
La Finlandia, nonostante i ritardi nella consegna del reattore EPR di Olkiluoto, non intende rinunciare al nucleare che oggi soddisfa circa il 30 % della domanda di energia [85] e recentemente anche il partito dei Verdi locali si è espresso a favore dell’energia nucleare [86].
Tra gli altri paesi europei che stanno riconsiderando l’energia nucleare ricordiamo i Paesi Bassi [87], la Slovacchia [88], la Repubblica Ceca [89], la Polonia [90], l’Ungheria [91], l’Estonia [92], la Romania [93] e l’Ucraina, che nonostante l’incidente di Chernobyl, non ha mai spento le proprie centrali [94].
Gli Stati Uniti stanno rilanciando la propria industria nucleare anche per contrastare il dominio russo e cinese nel mercato della costruzione di centrali nucleari [95].
Infine, ci sono reattori in costruzione o in progettazione in Cina, India [96], ma anche diversi paesi africani stanno prendendo in considerazione il nucleare per fornire elettricità a sempre più persone, che altrimenti ne sarebbero totalmente sprovviste [97].
Figura 9. Energia elettrica in TWh prodotta nel mondo, image credit.
Conclusioni
I prossimi decenni saranno fondamentali per contrastare il cambiamento climatico di origine antropica che stiamo osservando e che subiamo nella vita di tutti i giorni.
Intervenire sul settore energetico e quindi sulla produzione di energia elettrica, permetterà di ridurre in modo drastico la quantità di gas serra rilasciati in atmosfera.
Una soluzione semplice ed univoca ad un problema così complesso non esiste, ma riteniamo sia sbagliato precludersi vie, come quella dell’energia nucleare, spesso sulla base di un’informazione parziale o scorretta.
La complessità del problema richiede un approccio analitico e non ideologico che tenga conto di tanti aspetti quali l’affidabilità, la sicurezza, la provenienza delle materie prime e il rispetto dei diritti umani dei paesi esportatori, le emissioni di gas serra e la produzione di rifiuti solidi (radioattivi e non), al fine di trovare il mix ottimale che meglio si adatta alle diverse situazioni.
Le fonti di energia non sono necessariamente in competizione, ma possono essere complementari e riteniamo che i difetti delle fonti rinnovabili possano essere mitigati proprio dall’energia nucleare.
Con questo documento non intendiamo offrire una soluzione definitiva al problema, ma auspichiamo che possa contribuire al dibattito italiano offrendo diversi spunti di riflessione ed una ricca raccolta bibliografica.
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[90] “Poland goes nuclear with plan to build six reactors by 2040”, Global Construction Review, 2020
[91] “Hungary’s Paks II project receives construction approval”, World Nuclear News, 2020
[92] “Estonian firm aims to launch modular nuclear reactor in 2035”, Reuters, 2021
[93] “Romania gets approval from EC for $8bn nuclear plant expansion”, BNE Intellinews, 2020
[94] “Ukraine must expand nuclear energy, says President”, World Nuclear News, 2020
[95] “Why Biden Can Unite America With Nuclear Power — Or Divide It With Renewables”, Forbes, 2020
[96] “Plans For New Reactors Worldwide”, World Nuclear Association, 2021
Cambiamenti climatici e politica energetica
Il cambiamento climatico e la decarbonizzazione Nell’ultimo secolo e mezzo l’industrializzazione e il progresso tecnologico hanno portato importanti benefici e migliorato la vita dell’uomo sotto tanti aspetti, che includono l’allungamento dell’aspettativa di vita, una maggiore scolarizzazione, una più equa distribuzione delle ricchezze, il riconoscimento dei diritti umani fondamentali e un’estensione dei diritti sociali e politici ad una fascia di popolazione sempre…